Nevio Spadoni

No non è qualcosa di sentimentale appena, ma ha a che fare un “surplus di umanità” il “guardare il mondo con gli occhi del cuore” dei personaggi di Nevio Spadoni, il poeta di nascita ravennate e fama internazionale che ha ottenuto ben tre premi nel giro di poche settimane. Parliamo del premio alla carriera per la poesia dialettale della Mostra dell’Artigianato Artistico Abruzzese, del secondo posto al Premio Ischitella-Pietro Giannone 2021 e del ‘Premio Adriatico – un mare che unisce’, che riceverà il 30 settembre a Termoli. “Il premio alla carriera proprio non me l’aspettavo e mi ha fatto davvero piacere! Come tutti gli altri riconoscimenti, d’altra parte”, racconta quando lo raggiungiamo al telefono per un’intervista.

La sua pubblicazione più recente è ‘Vivi nella parola. I sepolcri dei poeti romagnoli’ (edito da Arcolaio, ndr)i: c’è un tratto comune che unisce la poesia romagnola, secondo lei?

“Sì è un volumetto con testi e fotografie fatte sui sepolcri di 30 poeti della nostra terra, che scrivevano sia in dialetto che in italiano, a cominciare da Pascoli. Volumetto che ho curato insieme a Fabio Pagani, giovane insegnante del Liceo Classico di Lugo, che mi aveva invitato a tenere un corso di poesia dialettale nel suo liceo. Ci sono diversi tratti comuni, però nel testo, dove trattiamo in particolare del rapporto con la morte, scopriamo che ognuno poi la affronta a modo suo. Per esempio c’è Tonino Guerra che ha scritto: ‘a me la morte fa una paura che mai, perché si lasciano troppe cose”… Altri invece l’hanno sbeffeggiata quasi con ironia.

Nevio Spadoni

Qual è il poeta romagnolo a cui deve di più?

“Quello che mi ha incoraggiato particolarmente è il lirico Tonino Baldassarri, poi ci sono amici come Giuseppe Bellosi e Giovanni Nadiani. Però se parliamo dei poeti in dialetto che ho amato di più c’è di certo Tonino Guerra, soprattutto quello de “ I bu” e de ‘Il Miele’, e poi Nino Pedretti, Walter Galli e Raffaello Baldini, che mi stimava molto e che è considerato uno dei più grandi poeti  a livello nazionale”.

Lei ha insegnato per tanti anni e oggi tiene corsi nelle scuole sulla poesia dialettale, come accennava prima. Cosa dice ai giovani, che ormai il dialetto non lo parlano o quasi non lo conoscono più, per avvicinarli alla poesia in romagnolo?

“I giovani sono fondamentalmente curiosi, e io, quando mi presento a loro, dico che devono vincere i pregiudizi. Perché è vero, scrivere in dialetto oggi può suscitare ilarità in alcuni, però bisogna far capire a questi ragazzi – e loro lo capiscono perché sono molto attenti – che quando si tratta di qualità, uno può scrivere in qualsiasi lingua, ma se non è poesia uno se ne accorge. E i ragazzi la qualità la sanno apprezzare. Purtroppo occorre passare dalle traduzioni, perché a parte qualcuno che è magari figlio di contadini e ha appreso la lingua dai nonni, la maggior parte di loro non conosce e non parla il dialetto. Tuttavia esistono delle belle esperienze in teatro, per esempio a Ravenna, con Martinelli e l’Ermanna Montanari, che sono riusciti a coinvolgere anche dei ragazzi senegalesi che hanno usato delle battute in romagnolo”.

Tonino Guerra

Lei dice spesso che i suoi personaggi vedono la vita ‘con gli occhi del cuore’. Cosa significa?

“Alla mia età (71 anni, ndr) sono arrivato a pensare che questa sia proprio la mia poetica. Guardare con gli occhi del cuore significa guardare al mondo con benevolenza, con i sentimenti profondi della poesia, diciamo proprio con umanità, che è qualcosa che oggi sta venendo meno. C’è un clima generale di disumanizzazione o, come diceva Pasolini, ‘desentimentalizzazione’ della vita e dei rapporti, in una società omologata e, diciamo pure, che crede in un falso progresso, perché il vero progresso non è appena il benessere ma è una grandezza di umanità. Quindi, anche attraverso la mia poesia e i miei personaggi, ho cercato di significare tutto questo mio sentire. Guardare con gli occhi del cuore non significa rinunciare alla ragione ma apportare un surplus di umanità”.

C’è un suo personaggio che di più riflette questa sua visione?

“C’è un po’ in tutti i personaggi, a cominciare dal primo lavoro, ‘Lus’, con la Bêlda, una cartomante che cura con le erbe (si tratta di un personaggio realmente esistito, nelle campagne ravennati, ai primi del ‘900, ndr), che tutti deridono in paese, ma da cui poi tutti si rivolgono. Già questo personaggio ha in sé una ricchezza grande di umanità, come anche tanti altri. Penso anche a ‘Fiat Lux! E’ fat dla creazion’, dove ho raccontato della Genesi in dialetto. Anche lì c’è una grande umanità, sia nei personaggi, che in questa figura di Dio che, al di là della severità del giudice, è poi un padre romagnolo buono, sostanzialmente. Magari è un po’ burbero, come nel Dies Irae, ma alla fine è misericordioso nei confronti dei suoi figli e, in particolare nel rapporto con Abramo, quando gli chiede di andare contro natura e uccidere suo figlio, alla fine lo salva e gli viene incontro perché poi dice: ‘io in fondo non voglio poi il male delle persone’. Credo sia importante anche riscoprire la paternità, in crisi da anni, insieme alla dimensione della tenerezza”.