Pupi Avati al Meeting

È una scena che cattura e al contempo terrorizza, il ciak del film di Pupi Avati al Meeting: ed è Beatrice che mangia il cuore di Dante. No non è un film horror, tranquilli, ma la messinscena del sogno che il poeta diciottenne farà dopo l’incontro con la meravigliosa coetanea Beatrice. Quando, di fronte alla Chiesa di Santa Margherita dei Cerchi, dopo nove anni nei quali lui “le era stato dietro”, per dirla alla bolognese, “finalmente una sera – e io ho girato questa cosa mettendo un carrello di sedici metri”, racconta il regista alzandosi in piedi – “lei fa due passi sui gradini, si gira… e lui rimane sospeso… Son passati nove anni e non l’ha mai guardato! Gli sorride, e gli dice: ‘vi saluto’. È l’unica cosa che lei ha detto in tutta la sua vita a Dante Alighieri”. Ma qui comincia tutta la poesia. Lui corre a casa a condividere quello che gli è successo, lo mette in versi, poi conosce Cavalcanti. Tutto nasce da quel ‘vi saluto’. Poi ci sarà il dolore, lei si sposerà un ricco banchiere e dopo pochi anni morirà: “non c’è mai da augurarselo, però il dolore è sempre formativo dell’atto poetico”.

Trascina la platea nella vita del Sommo Poeta dove è immerso da 8 settimane, il regista bolognese, che sta girando “l’opera più ambiziosa della mia vita”, come ammette lui stesso: un film sulla vita dell’autore della Divina Commedia, e appena finito l’incontro si ritufferà sul set. Perché bisogna avere grandi ambizioni nella vita, sempre. “Il nostro, purtroppo è un Paese che oggi non ha più grandi ambizioni. Quando propongo un nuovo film a qualcuno, l’unica cosa che mi chiedono è se ci faranno i soldi o no”. Invece non bisogna avere paura di avere desideri grandi: “io credo che nella vita sia sempre meglio fare il passo più lungo della gamba e che non ce ne si penta mai”. E la vita di Pupi Avati di rischi ne ha corsi parecchi, a cominciare da quel matrimonio con “la donna più bella di Bologna”, (Amelia Turri, ndr) conquistata con un bacio rubato a mezzanotte meno cinque di un finto compleanno non festeggiato. Fino ai tradimenti e alla cacciata di casa, per nove mesi, e ai regali ai figli che non venivano mai scartati. “Lì ho capito che stavo togliendo loro un padre e ho deciso di tornare indietro”. Il trasferimento a Roma, la “scarnificazione” di se stessi, dei propri tradimenti e la nascita vera e propria del matrimonio, che porterà poi anche alla nascita del terzo figlio, Alvise, “non cercato, come dovrebbe esser di tutti i figli”. Oggi i matrimoni finiscono subito, e a volte è anche giusto così, “ma se potete, se avete il coraggio, provate ad andarci fino in fondo: ne vale la pena”.

Un film ambizioso e vero, quello che Pupi Avati mette in scena sul palco della Fiera di Rimini, con grandi sogni, come quello dell’Oscar: “dopo ogni film mi scrivo il discorso per la cerimonia di premiazione: non serve mai, ma io lo scrivo!”. E scene di vita che rapiscono, come quando al provino della sua seconda opera (Thomas e gli indemoniati, 1970, ndr), alla ricerca di una versione giovane della biondissima Grace Kelly, si presenta una ragazza mora, amica dell’attrice scelta, che si dà malata. Dopo esser stata cacciata malamente dal set, lei “rimane tutto il giorno a un tavolo del bar di fronte”, finché a sera, impietosito, il regista le darà la parte: “anche se mi rovinerai il film”, dirà sconsolato. Il giorno dopo sul set non vorrà neanche guardarla in faccia, ma sentendo prendere vita le sue parole in bocca a questa giovane attrice scoprirà nientemeno che il talento di Mariangela Melato.

Talento, ecco un’altra delle parole chiave del film di Avati: ognuno di noi ha il suo talento, è che troppo spesso ci capita di sotterrarlo. “Quanti di voi possono dire di aver avuto gli anni più belli della vita nei 40 anni passati al lavoro? Io credo pochissimi”. Perché? Perché di solito pensiamo a quanto ci dà da guadagnare il lavoro, a quanto è vicino e comodo e non ci mettiamo tutto il nostro talento. “Io sono fortunato, certo, perché a 82 anni faccio una professione che mi permette di comunicare ciò che sono attraverso ciò che dico”, ma tutti dovrebbero provare a mettere sé stessi, almeno un po’, nella propria professione”.

Ma il talento migliore il grande regista lo trova in quella che di solito viene considerato un grave difetto: “la vulnerabilità”, qualità che unisce più di tutte i vecchi e i bambini. “Le persone migliori sono quelle vulnerabili, sensibili, che piangono per poco e che puoi emarginare con niente”.

L’ultima scena, Pupi, la dedica alle sue origini, è una sorta di testamento spirituale: “vorrei che la mia vita si concludesse con un’immagine”, dice nel silenzio assoluto del pubblico, “quella della cucina di via San Vitale, dove mio padre e mia madre mi aspettano per la cena”.

È standing ovation, termina il film, il regista saluta commosso uscendo di scena. E chissà che stavolta l’Oscar non arrivi davvero.