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Con i suoi oltre 250 miliardi di euro di fatturato è uno dei settori trainanti dell’economia italiana. Tanto vale la filiera del food & beverage, che occupa 3,7 milioni di addetti e genera 334,5 miliardi di valore aggiunto, pari al 19% del Pil nazionale.

Numeri snocciolati questo fine settimana a Bormio – dove si è svolto l’ottavo Forum The European House-Ambrosetti sul tema “La roadmap del futuro per il Food&Beverage” – e che diventano ancora più importanti se ai 251,1 miliardi del comparto food& beverage (176,7) e della produzione agricola (74,4) si aggiungono i 335,6 della distribuzione trade e horeca per arrivare a un totale aggregato di 586,9 miliardi in crescita del 2,5% su base annua.

Un comparto che cresce soprattutto all’estero. Nel 2023 le esportazioni agroalimentari italiane hanno raggiunto per la prima volta il valore di 62,2 miliardi con un aumento del 6,4% dal 2010.

Il vino è il prodotto più esportato e rappresenta il 12,5% del totale dell’export agroalimentare italiano per un controvalore di 7,8 miliardi. Ma soprattutto, stando al report di Ambrosetti, sono alcune eccellenze tipicamente italiane a imporci sui mercati internazionali: primeggiamo, per esempio, nella pasta con una quota di mercato del 45%, negli amari e nei distillati con il 41,5%, nelle passate di pomodoro con il 27% e nelle verdure della terza e quarta gamma (20% del mercato mondiale).

I principali mercati di destinazione dell’agroalimentare italiano sono, nell’ordine, la Germania con 10,1 miliardi di euro, la Francia con 7,2 e gli Stati Uniti con 6,7 miliardi.
Notevole la crescita della quota di export agroalimentare sul totale nazionale: era dell’8,2% nel 2010, è stata del 9,9% lo scorso anno.

La foto del Made in Italy alimentare che arriva da Bormio, dunque, è più che positiva soprattutto se rapportata alla complessa fase congiunturale che stiamo vivendo negli ultimi anni caratterizzata da tensioni internazionali e aumenti generalizzati dei costi con un’ondata inflattiva che solo di recente sembra aver perso vigore.  

Non mancano tuttavia alcune criticità, peraltro da tempo note: il fenomeno dei falsi prodotti Made in Italy che, dice Ambrosetti, pesa per oltre 24 miliardi di euro all’anno e la commercializzazione ingannevole di prodotti venduti come italiani ma che italiani non sono. Il “parmesan” e tutti gli altri cibi che nelle denominazioni evocano nostre eccellenze alimentari, il cosiddetto ‘italian sounding’, danneggiano il nostro export per oltre 60 miliardi.
Pratiche deleterie senza le quali i pur lusinghieri risultati raggiunti dall’agroalimentare nel mondo potrebbero essere ancora maggiori.