Che la crisi climatica sia un tema molto divisivo all’interno dell’opinione pubblica è un dato di fatto sotto gli occhi di tutti, che si manifesta attraverso le dichiarazioni scettiche di diversi personaggi pubblici o, al contrario, con i flash mob organizzati degli attivisti in tutto il mondo.
Più complesso è capire la genesi (sicuramente eterogenea) di questa polarizzazione, ma un ruolo determinante va riconosciuto senza dubbio al sistema mediatico dal quale le persone traggono strumenti e riferimenti per interpretare la realtà che li circonda.
Anche e soprattutto di questo si è parlato durante il “Forum della buona comunicazione. Come raccontare la transizione ecologica” organizzato dalla Ferpi nell’ambito dell’ultima edizione di Ecomondo, il salone internazionale di Italian Exhibition Group per l’economia circolare e la transizione ecologica.
Nel corso di questo appuntamento, Emiliano Fittipaldi – giornalista, saggista e direttore del quotidiano Domani – ha parlato di come i media affrontano il tema della sostenibilità e del climate change, evidenziando alcune criticità che inevitabilmente contribuiscono a creare lo scenario di cui sopra. “Su Domani da 3-4 anni il tema dell’ambiente è di centrale importanza, vogliamo stimolare il dibattito sulla transizione ecologia e il climate change. Quello che noi cerchiamo di fare per i nostri lettori è anzitutto proporre una distinzione netta e chiara tra fatti e opinioni, cercando cioè di spiegare in maniera insistita ciò che dovrebbe essere ovvio nel dibattito pubblico e che invece spesso non lo è“.
“Ci sono interessi politici ed economici che condizionano scelte comunicative secondo me sbagliate” spiega Fittipaldi “non si fa scienza ma opinione e nel corso degli ultimi anni questo ha in qualche modo polarizzato il dibattito, puntando i riflettori su ecoterroristi e fondamentalisti dell’ecologia. Inquinare il dibattito pubblico attraverso convinzioni ideologiche che non sono basate sulla scienza è la prima cosa che un giornale non dovrebbe fare. Noi proviamo a spiegare da dove nasce questo inquinamento informativo e perché“.
Secondo il giornalista ci sono dei capisaldi da cui partire per garantire un’informazione responsabile e non viziata da estremismi. Riferirsi esclusivamente a fonti scientifiche, agli studi pubblicati sulle riviste più importanti e alle informazioni divulgate da enti di riferimento come l’ONU e l’IPCC (l’Intergovernmental Panel on Climate Change).
Per il direttore del Domani questo è necessario, nonostante le evidenze siano sotto gli occhi di tutti: “nelle ultime settimane abbiamo visto l’impatto del cambiamento climatico sul nostro Paese, dalla alluvione in Emilia Romagna a quella in Toscana. Questo dovrebbe mostrare che gli eventi atmosferici straordinari avvengono con una ripetitività preoccupante, non dovrebbero servire neanche più i modelli degli scienziati per suggerire la necessità di cambiare in maniera brusca il nostro modello di sviluppo. Noi abbiamo fatto una proposta provocatoria, quella di considerare un reato il negazionismo climatico, visto quanto può essere pericoloso per la collettività. Il clima è diventato un tema “di moda” e divisivo: si stima che una percentuale compresa tra il 10 e il 18% dell’opinione pubblica pensi che il cambiamento climatico non esista e altri ancora che credono ci sia ma che non abbiamo possibilità di intervenire, per cui è inutile intraprendere la transizione ecologica. Occorre fare un disvelamento della menzogna“.
L’inquinamento dell’informazione in questo senso, trova terreno fertile tra i media tradizionali e sui social media anche per la forte presenza di interessi politici ed economici che, per affermarsi, utilizzano contenuti brandizzati che non sempre sono trasparenti e in linea con la comunità scientifica riguardo il climate change, o comunque che tendono a offrire prospettive alternative, quasi “calmierate”, dell’emergenza in corso.
“I media sono molto fragili, ovunque nel mondo e in Italia in particolare” ammette Emiliano Fittipaldi “negli ultimi 20 anni si è sviluppato un fenomeno che considera la comunicazione giornalistica una risorsa gratuita: le persone non comprano le notizie, o comunque investono molto poco per la propria dieta mediatica. I giornali come il nostro non riescono a sostenersi con gli abbonamenti e gli investimenti dei lettori. Per sopravvivere i media hanno bisogno di investitori e molto spesso questi sono i grandi gruppi industriali e automobilistici” – cioè i player che di fatto dovrebbero maggiormente modificare i propri asset per contribuire alla transizione ecologica collettiva – “che per interessi di business annacquano la comunicazione su queste tematiche sensibili” . I giornali e i media in generale di conseguenza sono molto meno liberi di fare comunicazione responsabile, che invece dovrebbe essere radicale e ferma su temi così importanti. Questo accade non solo sui giornali tradizionali ma anche sui social. La comunicazione responsabile ha bisogno dei lettori, così da permettere alle persone di fare scelte corrette per contribuire al contrasto di una piaga che interessa tutti“.